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di Paola Bergamini

Domenica pomeriggio un cielo plumbeo pronto a scaricare pioggia sovrasta Como. Nel cortile di Cometa, poco fuori città, i bambini corrono, si chiamano, urtano i passeggini “parcheggiati”, un papà blocca un ragazzino: «Calma! Meno macello». Il soggetto sfodera un sorriso sornione e scappa via. «Inutile! Ci penseranno dopo i ragazzi più grandi a farli giocare più tranquillamente. Forse!», dice una mamma. “La città nella città”, come ebbe a dire don Giussani all’inizio di questa avventura di accoglienza, sembra in festa. Ed è così. Dopo due anni a causa della pandemia, la rete di famiglie che si sono aperte all’affido, si ritrovano in presenza. «Mi ha invitato Valentina, le nostre figlie sono nella stessa scuola. Ero curiosa. Volevo capire cosa è questa “Cometa” che l’ha spinta a prendersi in carico prima uno, poi due bambini. Adesso ha un neonato. Mi sembra così strano. Non siamo più giovani… Certo che qui è tutto stupendo!», dice una bella signora a Maria Grazia Figini. Nel cortile tra adulti e bambini, con una arco di età che va dai pochi mesi agli oltre sessant’anni, sono quasi trecento, alcune coppie si guardano intorno, anche per loro è la prima volta. Non c’è niente da fare c’è qualcosa che colpisce quando si varcano i cancelli di Cometa. Una Bellezza che si vede non solo con gli occhi, si respira. Accompagnando un gruppo di persone, Maria Grazia racconta la storia: «Nel 1986 mio fratello Erasmo ha accolto un bambino malato di Aids, ed ha chiesto aiuto all’altro fratello, Innocente, medico. Nell’incontro con don Giussani questa traccia di bene è diventata “un’opera di comunione”. È stato acquistata questa cascina, allora un rudere, per poter vivere insieme. Hanno chiesto a me di venire a dare una mano. E guardando la loro esperienza alcune famiglie si sono aggiunte, altre hanno iniziato a fare riferimento. E poi è sorta la scuola professionale, il centro diurno, il doposcuola, il bar Anagramma a Cernobbio dove lavorano una decina di ragazzi e ragazze di cui alcuni con disabilità e poi…». Si ferma un attimo e aggiunge: «Nessuno qui ha fondato nulla, ma seguendo la realtà, da incontro a incontro, questa opera è fiorita e la vita con tutte le sue asperità è diventata densa di significato. Lo dico per me, perché davanti al dolore innocente dei bambini non c’è risposta umana che tenga. Non siamo eroi, sbagliamo mille volte. Ma c’è un bene più grande che accoglie me e loro. E la vita così è davvero affascinante. Anche quando sembra togliere il respiro. Adesso andiamo nell’aula magna della scuola per un incontro con due coppie e un sacerdote».

Marzia e Giancarlo, sposati da oltre quarant’anni, pensavano di godersi la pensione, al massimo di accudire i nipoti, ogni tanto. Una vita tranquilla. Conoscono Maria Grazia dai tempi dell’università e da lontano hanno sempre seguito l’esperienza di Cometa. Ma nulla di più. Poi un imprevisto. Un amico, che non può guidare, chiede di accompagnarlo a Cometa per gli incontri con le famiglie. Inizia a smuoversi qualcosa. Invitati, trascorrono due giorni con un gruppo di famiglie affidatarie a Loano. Ricorda Marzia: «Non avevamo figli, cosa facevamo lì? C’era questa amicizia antica e la bellezza che vedavamo. Qualcosa da invidiare». Finché Maria Grazia, in piena pandemia, li chiama per l’affido di due fratelli. Non c’è molto tempo per pensare. E accettano. E dopo i due bambini, un neonato. Altro che pensione tranquilla. «È stato come rinascere di nuovo», racconta Giancarlo. «Un’avventura che destabilizza, ma che rende bella la vita».

Simone, consulente finanziario, aveva un’idea chiara: non finire come alcuni manager: tristi e depressi. «La mia vita non può essere così» e dice a sua moglie Barbara: «Perché non apriamo la nostra casa all’accoglienza?». La risposta è secca: «No». Un amico gli propone di fare un giro in Cometa. Appena arrivati gli piazzano in braccio un bambino. «Ma dove sono finito?», pensa Simone. «Io vedevo persone di 40, 50 60 anni felici in quello che stavano facendo», ricorda Barbara. Ma c’è bisogno di tempo. Seguire i segni della realtà. Che diventano dirompenti una sera di dicembre quando arriva la telefonata con la richiesta di disponibilità per due fratellini. «La nostra “gravidanza” è durata 12 ore, il tempo per decidere», racconta Simone. Interviene Barbara: «Gli ho detto: “Ma c’è qualcosa che ci impedisce di volere bene a questi bambini?”». Due giorni dopo l’arrivo dei fratellini però d’impulso vorrebbero mollare tutto. «Se non ci fosse stata la compagnia degli amici di Cometa non so se ce l’avremmo fatta. Da soli è davvero difficile. Qualche giorno fa, mio figlio mi ha detto: “Papà impazzisce di gioia quando mi vede”».

Di Cometa, padre José Miguel García, spagnolo, sapeva la storia letta sul mensile Tracce. Nulla più. E ancora una volta “un imprevisto”, in questo caso un passaggio in macchina, gli fa incontrare Alessandro Mele che lavora a Cometa, appunto. Va a trovarlo e «sono rimasto subito affascinato dalla bellezza di questo luogo, ma soprattutto dall’umanità delle persone», ricorda. Nel 2007, padre García aiuta gli amici di Cometa per la mostra al Meeting di Rimini. L’amicizia diventa sempre più stringente e una volta al mese vola a Como per gli incontri con le famiglie. Da quest’anno, in pensione, si è trasferito in pianta stabile a Cometa. «Sono qui ad aiutare e ad imparare. Questo luogo è una promessa di vita per me», spiega. In fondo al salone i neonati fanno sentire la loro voce. Arrivano i più grandi e c’è il tempo per alcuni canti e poi… merenda e ultime chicchere. Dopo, per chi vuole la messa nella cappella della “città nella città”. «Mamma, vado via cinque minuti, guarda tu il piccolo nella carrozzina». Valentina sorride, l’ordine arriva da sua figlia, dieci anni. «Obbedisco!», le viene da rispondere. «Comanda la ragazza! Un bel personaggio», commenta l’amica con cui sta chiacchierando. «Sì, è sempre stata così da quando è arrivata a cinque anni a casa nostra. Adesso vuole fare da mamma a questo ultimo arrivato».