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Un’insegnante racconta la sua esperienza con i ragazzi che frequentano il percorso Liceo del Lavoro, della Scuola “Oliver Twist” di Cometa a Como, si interroga sul suo ruolo e si mette in gioco.

Insegnare letteratura dove meno te lo aspetti.
Un’esperienza con i ragazzi in dispersione scolastica

di LINDA CAVADINI

Tratto dal blog di didattica della letteratura della casa editrice Pearson
Da due anni insegno Comunicazione in un percorso chiamato Liceo del Lavoro, finanziato da regione Lombardia e attuato alla scuola “Oliver Twist” di Como. I miei studenti sono ragazzi con vissuti scolastici molto pesanti: bocciature, abbandoni, frustrazioni, cui spesso si sommano difficoltà caratteriali e famigliari. I ragazzi, insomma, che siamo abituati a vedere ad ogni ora ciondolare nei parchetti, sulle panchine o fuori dai centri commerciali; ragazzi che escono dalla scuola sbattendo la porta; ragazzi che nella scuola, nella società non sanno proprio stare; ragazzi senza scopo, abbandonati e arrabbiati. Storie come quelle di Lorena (nome di fantasia): «Non sentivo o provavo più niente, ero impassibile a tutto e non mi ricordavo neanche il motivo del perché a volte io fossi così arrabbiata. Le mie giornate consistevano nel prendere un treno e andare lì perché solo così pensavo di stare meglio. Sono stata bocciata un anno e mi sono ritirata due anni dopo». La prima domanda che mi sono fatta davanti a loro è stata: «E io a che servo? E io cosa faccio qui? Cosa insegno loro?»

Ho progettato il mio percorso pensando che fosse importante dar loro “nozioni utili e spendibili”: come si fa un curriculum, come si fa una lettera di presentazione, etc. Eppure qualcosa mancava: ai ragazzi non piaceva, si annoiavano, non ne capivano il senso. Quindi ho pensato di portare in classe ciò che piace a me, ciò che non può lasciare indifferenti, ciò che mi ha fatto vedere il mondo con occhi diversi o mi ha dato le parole per descriverlo, ciò che è bello: la letteratura. Non intesa come storia della letteratura, ma come puro godimento del testo, come pura esperienza estetica. E lì si è compiuta la magia che io chiamo “gli occhioni sgranati”: ho letto loro (sì, perché bisogna leggere il testo, farlo ascoltare!) Non chiederci la parola di Montale e al termine, dal fondo dell’aula, si è alzata la voce di Thomas: «Wow prof, non ci ho capito niente», beh, a dire il vero non proprio con queste parole, ve lo lascio immaginare, «ma spacca». Ho capito di essere sulla strada giusta: il testo ha fatto nascere lo stupore e la meraviglia che sono due condizioni imprescindibili per cercare di capire e di conoscere.

Prima che voi pensiate che la letteratura abbia fatto il miracolo di trasformarli in ardenti studiosi, vi dico, onestamente, che, se funzionano bene lo stupore e la meraviglia, l’analisi in classe e la discussione, tuttavia sono ancora del tutto assenti lo sforzo di “trattenere” quanto appreso e la voglia di faticare per conoscere. Ma tant’è: quando parlano gli autori, i ragazzi ascoltano e mi sembra già tanto, tenendo conto che molti di loro già a ottobre avevano smesso di andare a scuola.

In questo percorso è fondamentale cercare e proporre le opere giuste, che, nella mia esperienza devono rispondere ai seguenti criteri:

  • Il bello stile. Bisogna scegliere testi né troppo complessi né troppo semplici e sciatti, ci devono essere quelle che i miei ragazzi chiamano «le parole belle, che suonano bene». Un giorno, pensando di fare la scelta giusta, ho portato loro un brano tratto da Jack frusciante è uscito dal gruppo di Brizzi: è stato completamente disprezzato perché «Prof, è scritto male, non si capisce niente, ci sono le parolacce. Quello della settimana scorsa sì che era bello, me lo son sognato di notte». E si trattava del Gatto nero di Poe.
  • Trattare temi vicini ai ragazzi. E non intendo l’uso dei telefonini, la musica e la discoteca. Intendo questioni universali, situazioni che i miei ragazzi hanno vissuto sulla loro pelle: la rabbia, il tempo perduto, il bisogno e il desiderio, la felicità, la fiducia e l’amore in ogni sua sfaccettatura. Per questo, brani come Il Colombre o I giorni perduti di Buzzati sono stati il trampolino per discussioni interessanti, per produzioni scritte in cui dovevano analizzare se stessi, facendo lo sforzo di usare parole non banali e non gergali, cercando di imitare lo stile dell’autore.
  • Testi che creino immagini, che colpiscano l’attenzione. Ho letto in classe il brano sulla “madre di Cecilia” e li ho visti restare col fiato sospeso. Ivan alla fine mi ha detto: «Prof, sembra di vederla! Poverina. Ma alla fine è morta anche lei?» I grandi testi di letteratura creano mondi (non è un caso che “poesia” derivi dal greco poiéo, fare, creare), catapultano nelle vite degli altri, sono cinema prima dell’invenzione del cinema stesso. E la generazione con cui abbiamo a che fare è una generazione che apprende anzitutto attraverso l’immagine.

Ma se il grosso lo fa il testo a che serve l’insegnante? Solo a scegliere il brano giusto?
No, il docente è il medium, colui che traduce, trasporta il testo, colui che lo serve in tavola, che ne determina il ritmo dell’apprendimento. E allora non posso che sorridere compiaciuta ascoltando i miei ragazzi alla fine di una lezione sulla Divina Commedia:

«Prof, Dante è bellissimo, ma quanta fantasia aveva! Non esiste una versione per noi? Non riusciamo a capirlo senza di lei». «Ma sei matta? Leggerlo da solo a casa? Solo quando la prof lo spiega è come se Dante fosse qui». E portare Dante in classe è qualcosa che riesce anche grazie ai potenti mezzi del teletrasporto contemporaneo che si chiamano “nuove tecnologie”.

LINDA CAVADINI

Docente della Scuola secondaria di primo grado “Aldo Moro”, Prestino
Istituto Comprensivo Como Prestino-Breccia
Insegnante di Comunicazione nel percorso Liceo del Lavoro, della Scuola “Oliver Twist” di Cometa a Como.